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venerdì 9 settembre 2016

I personaggi di 'Senza Ombra': Hanasiranae

Ritorno oggi con la presentazione di Hana (o Hanasiranae, il suo nome completo). A mio parere, è un personaggio sottile, delicato, fermamente vincolato da catene di dovere e consapevolezza del proprio ruoto, ma tremendamente nostalgico e triste: nell'illustrazione che segue ho voluto circondarla dei toni del lilla (nel codice demoniaco dei colori, la vita che muore) e ho rovesciato lo sfondo, ponendolo in obliquo, per sottolineare la sua non appartenenza al mondo che protegge.
Questa presentazione è un po' diversa dalle altre: tutto ciò che è narrato esula dal romanzo vero e proprio; si tratta di eventi accaduti prima dell'inizio della storia, perché Hana è una creatura molto, molto antica...

                                                         Hanasiranae nelle sue vesti di Guardiana, by Vale


In più di millesettecento anni di vita, Hanasiranae era stata molte cose. D’altronde, lei era la Guardiana del mondo -la prima cosa su cui aveva posato lo sguardo erano stati gli occhi freddi e imperscrutabili dell’angela che l’aveva creata: si era quasi persa in quell’abisso di gelido spazio e argenti stelle che sembrava volerla risucchiare, ma tornare in superficie, tornare alla realtà, era stato semplice, più che semplice, perché la realtà la affascinava.
Hanasiranae, la Prima tra gli Spiriti, essere composto di limpida luce violetta e del soffio inquieto di una mente, amava la terra che era suo compito proteggere, anche se non poteva toccarla, anche se non poteva respirarla, assaggiarla, sentirla. Era un fantasma, era pura magia (a lei gli angeli avevano affidato il potere di Creare e guarire, che ormai non erano più in grado di gestire), era il frutto di un incantesimo disperato, l’ultima speranza per un mondo straziato da guerre potenti.
Era… una serva.
Il suo compito? Purificare Haryha dalla follia.
“Giuro di proteggere la Tua grandezza,” disse, frapponendosi tra l’angela Helian-ashta e i suoi nemici, “Giuro di preservare la Tua coscienza,” disse, ergendosi al fianco del proprio compagno -erano soli davanti all’immensità della guerra che dovevano, dovevano, combattere, a ogni costo, portando avanti un terribile sterminio che pure era indispensabile.
“Giuro di stare al Tuo fianco fino alla fine,” disse, guardando l’orrido spettacolo di un angelo che moriva tra grida e lamenti e luce che si spegneva.
“Lo giuro sulla mia vita e sul mio onore…”

Hanasiranae amava: amava, profondamente, con tutta se stessa: amava il mondo per come era e amava la vita e amava l’angelo Niallen che era l’unico a capire, l’unico a conoscere davvero la grandezza del sacrificio che lei faceva; perché Hana non amava soltanto, lei era innamorata, viveva un amore che non avrebbe mai potuto consumare.
In fondo, come sarebbe stato mai possibile a uno Spirito -un etereo, impalpabile Spirito-toccare, stringere, baciare? Eppure la sua anima era legata, vincolata da avide corde sottili a quella di un Drago, il Primo, colui che era la sua metà, la Distruzione dove lei era la Creazione.
La loro vita non era interamente infelice: i Custodi non erano mai soli, in fondo. Perfino quando i due angeli si separavano da loro, il Drago e lo Spirito restavano vicini, in contatto -si accontentavano semplicemente di mescolare le proprie menti l’una con l’altra, finché tutte le barriere svanivano e non restava altro che infinita gioia, la sensazione di adeguatezza, di perfezione, portata dal semplice essere insieme.

Insieme vagavano, insieme cercavano, insieme uccidevano e piangevano e si crogiolavano in un rimorso che veniva dalla consapevolezza di non essere altro che strumenti di una vendetta infinitamente più grande di loro, uno massacro che, per quanto giustificato, era abominevole. Gli angeli impazziti avrebbero annientato il mondo -quella stessa vita che avevano voluto e curato e cresciuto- e quindi era necessario, era imperativo schiacciarli, annullarli, dimenticarli. Ma ogni vittima che cadeva per mano loro era un passo verso un precipizio senza fine e senza via di fuga, la prova che per Haryha non c’era più speranza. Quando i Guardiani si sarebbero arresi, allora sarebbe giunta la fine.

Non lo sapevano, non ne avevano idea: cercando pace, cercando una qualche sorta di espiazione, voltarono le spalle alla terra che avevano giurato di proteggere sette secoli addietro e ne cercarono una nuova. Fu un bel sogno -meraviglioso, invero, un curioso intreccio di morbida luce speranzosa ed un senso di vittoria esilarante, un incontrarsi di coscienze che, per la prima volta, sarebbe stato accompagnato da un tocco… Mutarono forma.
Hanasiranae sentiva. Le sue dita intrecciate a quelle di Irusakiran cantavano, e i baci che si scambiarono in quei primi giorni, quei giorni che erano ancora giorni felici e forti di un futuro pulito e limpido, furono ardenti e gioiosi, ogni loro contatto, anche il più semplice, intimo e familiare all’inverosimile.
Ma gli angeli erano esseri imprevedibili, cui il passare del tempo risultava irrilevante, futile persino; non si poteva prevedere quando esattamente avrebbero scelto di vendicarsi della perdita del loro più caro Potere, quando esattamente avrebbero gettato su demoni e hakeruneshka tutta la loro furia mortale. Irusakiran e Hanasiranae attendevano, all’erta, di cogliere i primi segni della fine di ogni cosa.
Non erano stati in grado di adempiere al proprio compito.
Giunsero, infine, e l’ultima delle loro guerre fu un evento orrido e vergognoso e indimenticabile -e tutto ciò che i Guardiani avevano costruito, la pace, la comprensione, svanì in un istante sotto i loro occhi di gelido universo, svanì sotto il peso di una Maledizione folle e crudele che li avrebbe spinti a combattersi fino ad annientarsi: demoni e hakeruneshka, popoli che erano l’uno il riflesso dell’altro, destinati ad odiarsi e distruggersi in eterno in una replica di ciò che gli stessi angeli avevano vissuto. Una punizione, forse?
Sì, era una punizione, e i Custodi ne portarono il peso insieme; gli ottocento anni che seguirono scivolarono via in fretta in un turbinio di battaglie inutili e sanguinose, in una interminabile serie di fallimenti che li rese alieni e nemici di quella stessa terra che era loro figlia. E pure si sacrificavano, minacciavano e imploravano, fino a che non decisero ch’era troppo tardi, che si sarebbero lavati le mani di quella gente che di loro non ne voleva più sapere.
Si ritirarono e la guerra li trovò comunque. La guerra che erano nati per combattere si prese l’unica cosa per cui Hanasiranae ancora lottava -la guerra, il suo stesso popolo si prese la vita del suo amato compagno. Stringendo a sé il suo corpo freddo l’ultima Guardiana gridava il proprio dolore e il proprio sconcerto e la propria rabbia, e per una volta -l’unica- il suo potere di Creazione divenne scuro e crudele ed uccise.
La dolce Hanasiranae si macchiò le mani del sangue di persone che avrebbero potuto essere risparmiate, ma non se ne curò, troppo presa dalla propria cupa disperazione.
Cosa ne sarebbe stato di lei, adesso che Irusakiran era morto, portandosi via metà della sua anima e tutto quel che restava delle sue speranze? Non c’era altro che buio.
Ma era vincolata alla promessa che lui stesso le aveva strappato prima di morire. Proteggerò questa terra, ad ogni costo.
In fondo, cosa importava che in lei non fosse rimasta che una voragine aperta e vuota? Cosa importava che non avesse più nulla da donare né da desiderare? Cosa importava che per quanti sforzi facesse, Neith -terra dannata!- continuava a sfaldarsi tra le sue mani, a sfuggire dalla sua presa tremante, a morire?
Cosa importava?

Lei era Hanasiranae. Era la Guardiana.

-Vale

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