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martedì 30 agosto 2016

I personaggi di 'Le Ombre di Kaykoura': Maya

Il quartetto dei protagonisti di 'Le Ombre di Kaykoura' si conclude con Maya. Mentirei se dicessi che pensare una presentazione che le si adattasse è stato facile... Per quanto sia il primo personaggio completo che io abbia mai creato (o forse proprio per questo) ho sempre l'impressione (o il timore) di non riuscire bene a mostrare quanto quest'elfa (l'unica nella sua terra) sia complessa e piena di sfaccettature: non è semplicemente una madre amorevole che non può avere figli; è molto più di una semplice guida politica; è fragile nella sua continua lotta fra ciò che ci si aspetta da lei e ciò che lei ritiene giusto; è forte nel suo essere di mente aperta e libera da pregiudizi, e nel suo saper leggere quel che si cela nell'animo di chi la circonda.


Maya, con le effigi del suo potere: il Serpente con il seme a indicare la vita mortale e immortale che protegge; la spada di Sharad a testimoniare la sua lotta contro gli Elfi Oscuri; il giglio blu che è simbolo del Consiglio degli Elfi di cui è Capo; by Vale



“Da questo momento in poi, piccola Maya, tu sarai protettrice di questa terra; come elfa, sarà tuo compito dare anima e sangue a lei e alle sue creature, fino a che non morrai, o vivrai nella vittoria.”

Aveva cinque anni e lì terminava sua infanzia; la testa reclinata all’indietro fin quasi a far male, fissava negli occhi lo spirito severo e triste della Prima Elfa. Sharad la guardava, concentrata solo ed esclusivamente su di lei, il volto pallido una maschera d’indifferenza tinta dalla più minuscola goccia di compassione. Lentamente, in un gesto che troppe volte aveva ripetuto, estrasse dal fodero la spada antica e gliela porse: così passava a quella bambina tremante e fragile la propria assurda eredità fatta di guerra e obbedienza e oscurità. Maya rimase in silenzio, osservando con timore l’arma sottile e antica e più alta di lei scintillare di riflessi di giada nella luce del mezzogiorno.

“Mia figlia è diversa… è figlia della natura, prima che mia. Io devo proteggerla, Aelyo, e non ho tempo di giocare all’assassino con te e la tua combriccola di Cacciatori.”

Suo padre capiva molto più degli altri cosa significasse per la piccola Maya essere un’elfa: aveva sei anni e nella sua mente si rincorrevano le memorie di Sharad e delle sue compagne, ricordi adulti, incomprensibili, terrificanti, ricordi che erano tinti di sangue e del nero colore della Morte. Lei sarebbe diventata lo scudo su cui si sarebbe abbattuta la furia del loro eterno nemico, lei sarebbe diventata la schiava della storia e del destino, lei avrebbe lottato fino a sacrificarsi. Elanen voleva proteggerla, disperatamente.

Tu sei la causa di ogni mio male.

Quelle parole dipinte sul viso della madre erano forse ciò che le era più difficile affrontare; aveva sette anni e suo padre era morto, morto perché la proteggeva, e davvero la bambina non trovava in sé la forza di biasimare la ninfa che non riusciva neanche a sopportare la sua presenza e voltava il capo per non dover posare gli occhi su di lei. E i loro occhi erano tanto uguali -stesso colore turchino, stessa forma affilata- eppure tanto diversi -quelli di Maya erano addolciti da una tristezza infinita, qualcosa che le apparteneva ma solo in parte, quelli di Miisa erano vuoti, allucinati.

“Elfa, il tuo solo scopo in questo mondo è batterti con me! Combatti! Ti ucciderò in ogni caso, combatti!”  

Maya aveva otto anni e la sua guerra era ormai cominciata. Stringeva a sé il ciondolo di Sharad, la Lacrima del Castagno, la manifestazione dell’enorme potere che doveva proteggere, e silenziosamente affrontava il Re degli Elfi Oscuri. Chino su di lei, Kyragh la guardava con millenari occhi di ghiaccio, portando con sé la certezza che non esisteva altra certezza se non la lotta, la sofferenza, la morte.
La bambina spiava nella sua anima e vi si vedeva riflessa, perduta in un oceano di oscurità, rimpianto, desiderio di vendetta; era quello il suo eterno nemico, eppure odiarlo non le era possibile -un’elfa non può odiare, un’elfa è obbediente, un’elfa è buona- né provare il desiderio di ucciderlo. Perché lui era diventato la sua àncora, il suo punto di appoggio, e per quanto la tormentasse e la colpisse e la terrorizzasse, pure la consolava e la abbracciava e guariva quelle stesse ferite che le aveva inferto…

“Tu sei la persona più coraggiosa che io abbia mai visto. Sei più forte di un drago. Stammi bene a sentire, Maya. Nessuno deve, hai capito? Tutti hanno diritto a una scelta! Sia tu… che lui. E lui per due millenni ha scelto il male e la follia e la perversione.”

A dieci anni, Maya era pericolosamente vicina al punto di rottura. Non sapeva se sarebbe stata l’indifferenza della madre o la follia di Kyragh a darle il colpo di grazia, ma sapeva che sarebbe giunto. Per sessanta lunghi mesi aveva portato avanti la guerra di Sharad -sono stata forte, non ho mostrato debolezza, non ho consegnato il mio potere a lui, ma- aveva paura, troppa paura. Raggomitolata tra le braccia del suo amico di una vita, cercava una briciola di calore per superare un altro giorno; e Hashim, il figlio della più grande Cacciatrice di Elfi Oscuri di ogni tempo, si aggrappava disperatamente a lei e tentava di nasconderla allo sguardo di Kyragh. Lui era il suo rifugio, e solo se premeva il viso nell’incavo del suo collo e sentiva la sua voce all’orecchio e le sue mani nei capelli poteva trovare pace. Lui era la sua speranza.
E davvero pensò che fosse finita quando il Re Oscuro glielo portò via -lo uccise, forse. Invece Maya si scoprì stanca e furiosa e ribelle, scoprì il desiderio di ergersi al di sopra di quel destino che non aveva scelto, scoprì la voglia di vivere, ma vivere sul serio, vivere serenamente. Gettò da parte gli ideali di Sharad -è un fantasma, un fantasma!- e fuggì.

“Sai, Maya, tu sei completamente diversa da ciò che un’elfa dovrebbe essere. Sei un mistero -non riesco a comprendere come tu possa anche solo desiderare di avermi vicino.”

Maya aveva ventidue anni -bella e giovane e fresca e ancora schiava- e sedeva composta, vestita di bianco e oro, la testa reclinata sulla spalla di colui che avrebbe dovuto essere suo nemico. Varon la osservava con affetto e curiosità, e i suoi occhi di ghiaccio, così simili a quelli di Kyragh, brillavano di una luce piena di meraviglia. “Siamo uguali, noi due,” gli diceva lei, “Entrambi prigionieri di ruoli che non ci appartengono…”
Buoni, cattivi. Che concetto infantile e pericoloso… Erano due creature sole, vittime del fato: illudersi che forse sarebbe stato amore a legarli fu facile, davvero, e fu quella breve relazione, più di ogni altra cosa, a farle finalmente capire che non c’era un’unica risposta esatta; e capì che per lei era indispensabile restare in equilibrio, bilanciarsi tra le due parti, non sceglierne una e darle la propria fede assoluta.

“Maya, mia cara Maya -tu sai che questa è casa tua: niente potrà separarti da noi. Non esiste dovere né destino che possa vincolarti tanto. Ormai hai prestato giuramento, sei una di noi. Sei libera.”

Maya sorrise al suo nuovo amico. Aveva venticinque anni ed era Capo del Consiglio degli Elfi, aveva venticinque anni e d’un tratto l’immortalità non le sembrava più una cosa terribile e mostruosa. Hinn era al suo fianco, e Varon, e Darn, e tutti i suoi compagni, e lei era a casa. Non aveva dimenticato il proprio dovere, non aveva dimenticato Kyragh né la propria eterna lotta, no… Li aveva semplicemente messi da parte, perché non erano essi a definirla: mai più, mai più, si sarebbe lasciata incatenare da simili follie.
Era libera.



-Vale

sabato 27 agosto 2016

I personaggi di 'Senza Ombra': Naeth (as told by his cat)

E con il post di oggi si concludono ufficialmente le mie vacanze! Questa volta ho l'onore di presentarvi Naeth, uno dei protagonisti di 'Senza Ombra' e forse quello che ha subito più modifiche nel corso della stesura del romanzo (ripensando a come avrebbe dovuto essere nel progetto iniziale, non lo riconosco affatto...) Trovo che sia un personaggio molto sottile, molto riflessivo: è importante soprattutto per il valore che ha e che gli viene dato da coloro che lo circondano; prima di ogni altra cosa, è un simbolo.
La voce narrante della presentazione è Milu, la sua fedelissima e affezionata micia.


                                                    Naeth, la micia Milu e l'ombra dell'angela, by Vale


Nel momento stesso in cui ho posato gli occhi su di te ho deciso che sarebbe stato mio preciso compito proteggerti, perché tu non ne sei capace, elfo folle e sconsiderato; tu che stai per morire e vivi di conseguenza, seguendo regole tutte tue. Dicono che sei un Professore, un sapiente, un filosofo: la gente si fida di te in modo assoluto e forse anche incosciente, ma quando ti giri e mi guardi con quella tua aria desolata e triste -certo che non tradirò mai il segreto della tua debolezza- non posso fare a meno di vederti per ciò che realmente sei, un giovane in fuga costante, perso in una corsa contro il tempo inutile e disperata. Il tempo non aspetta, non si piega, non si ferma ad ascoltar ragioni.
Non ti darai mai per vinto, tu. Non ci sarà resa per te, non te lo consenti anche se magari avresti bisogno di una tregua, di una pausa, di un po’ di conforto.
Da ragazzo ti bastava aprire un libro e immergerti tra le sue pagine per dimenticare il mondo e i suoi problemi e lasciarti trascinare dalla tua immaginazione. Adesso, adesso non basta più: non puoi permettertelo, non tu, non il Professor Naeth di Pherahet, è un lusso che non hai il diritto di concederti. Forse nemmeno vuoi, forse tutto ciò a cui il tuo cuore anela è la realtà, nuda, cruda, affascinante -quella stessa realtà che ti è preclusa e che guardi da lontano con desiderio infinito.
E così proteggi il segreto della tua maledizione che è come un cancro e ti divora dentro, paradossalmente dandoti la forza di andare avanti, di lottare, di ribellarti. Tu non puoi uscire: sei condannato, stai per morire, hai troppe, troppe cose da fare e a cui badare perché tu ti distragga. Testardo, ti aggrappi a quegli stessi ideali a cui hai giurato di sacrificare la tua vita, li stringi con la forza della tua mente tagliente come vetro e ti convinci che non c’è altro di cui tu abbia bisogno; e se mai ti senti smarrito, scacci via lo sconforto e continui imperterrito lungo la strada che hai deciso di percorrere.
Tua madre non sa, Tessella non sa, non deve sapere -non sopporteresti il suo dolore e così preferisci tacere e mentire, ti rinchiudi nella tua camera e ti circondi di piani, strategie e complotti: sei Sovversivo, dopotutto, a capo di una Resistenza improbabile e fragile, schiavo della tua strenua ricerca di libertà. È comune e diffusa la convinzione che a muovere una ribellione ci sia la speranza, ma per te non è così, per te c’è soltanto una metodica, gelida furia guidata dalla volontà di rovesciare il fato. Lo vedo sul tuo viso quando mi prendi in braccio per legarmi al collo una missiva destinata al Confine, lo vedo nei tuo gesti misurati e nella cura con cui pianifichi le mosse dei tuoi Sovversivi, lo vedo nel rifiuto e nella decisione con cui ti rialzi ogni volta che la maledizione ti getta a terra e ti fa sputare sangue.
“Io non credo nel destino,” esclami, più e più volte. Occhi dorati si tingono di sfacciato coraggio, un coraggio che è così vero e così falso allo stesso tempo. Tu sei un guerriero che non combatte -non puoi combattere, e questo ti pesa, ti pesa tanto anche se non lo mostri.
Hai due mesi per rimettere in piedi un mondo in frantumi -un simile compito, una simile consapevolezza basterebbe ad annientare qualsiasi altra persona ma non te: tu stringi i denti e semplicemente ti fai carico del peso della tua Terra straziata da guerre e siccità e fame. Vuoi riscrivere il suo destino e ti convinci di essere in grado di farlo, di poter rivaleggiare con gli angeli che, Creatori della tua Neith, ora ne vogliono la Distruzione. E gridi in viso all’ombra dell’angela che ti segue e ti perseguita, pretendi risposte quando lei ti offre indovinelli, le rovesci addosso una rabbia infinita che sa di delusione. Lei, rovina miserevole di un popolo che era stato grande, lei, essere carico di rancore e desiderio di vendetta, l’angela che non ricorda più il proprio nome, dichiara di volerti vivo, di volerti salvare.
Non le credo.
Sono in molti a cercare la tua salvezza: c’è questa giovane Sanguemisto a cui ti sei affezionato e che ti è devota… è una bugiarda, una spia, ma ti è fedele come nessun altro, e quindi le consento di avvicinarsi a te, di toccarti e stringerti e provare a guarirti dalla tua solitudine. So che se ne andrà, eppure non posso fare a meno di sperare che terrà fede al giuramento che tante -troppe- volte ha ripetuto: “Non permetterò che tu muoia, Naeth.”
Io conosco il tuo cuore e mi rendo conto di non poterti regalare una simile vuota promessa; non è ciò che tu vuoi, non è ciò di cui hai bisogno, sarebbe soltanto una crudele prova d’egoismo, perché tu metti il dovere prima di ogni altra cosa e non t’interessa di salvare te stesso -ti adoperi per riportare in vita Neith, la terra infelice che è legata alla sopravvivenza degli Spiriti Hakeruneshka, specie sterminata di cui non restano altro che corpi rinchiusi in un laboratorio inarrivabile, il laboratorio del Dittatore contro cui, non visto, ti scontri giorno per giorno.
La notte prima della battaglia piangi. Mi abbracci e piangi, perché sai bene che da te non si richiede altro che fermezza e la sicurezza di una vittoria assoluta e di un leader dalla mente fredda e vigile: hai bisogno di concederti quell’attimo di debolezza e disperazione assoluta, di concederti di contare gli ultimi battiti del tuo cuore stanco, di concederti di aver paura di morire. Finché la luna è alta nel cielo tu sei tremante e spaventato e inquieto e maledetto. Nei tuoi occhi si riflettono i tuoi pensieri, mentre ti interroghi sul tuo futuro.
Vorresti sbagliarti. Se ti sbagliassi, sarebbe tutto più semplice. Come, come potrai mai ordinare la morte di un angelo, se di un angelo si tratta? Eppure tu puoi.
Poi ti alzi e sei invincibile e pronto. Pronto ad uccidere un angelo. Un angelo vendicativo, un angelo folle, ma pur sempre un angelo; perché solo una simile creatura è in grado di portare una tale distruzione.

Shevé, Naeth di Pherahet. Che le stelle ti proteggano.

-Vale


giovedì 25 agosto 2016

I Personaggi di 'Senza Ombra': Anaichi

Dunque… Per quanto riguarda Senza Ombra, il primo personaggio da presentare è certamente Anaichi, o Nai, come affettuosamente lo chiamo io; lui è, in fondo, colui che ha dato vita alla storia, e la prima immagine che ho pensato gli appartiene: un giovane demone, solo, in lutto, in piedi in un cimitero argenteo e nebbioso, rende onore alla defunta famiglia evocando con il proprio sangue un arbusto di rose vermiglie e rinnovando una promessa di vendetta. Ahel sheri kaa, dice, Mi mancate. In verità devo ringraziare la mia professoressa d’inglese di primo e secondo superiore -è stato ascoltando la sua appassionatissima lezione sui “Graveyard Poets” che ho avuto l’ispirazione per questo romanzo… Quindi Thank you, really.
Ma torniamo a noi: Anaichi. Lascerò che sia lui stesso a presentarsi, e userò un metodo molto usato -la songfic, che mi ha sempre affascinata ma che non ho mai provato a scrivere finora. Speriamo bene! La canzone che sarà lo scheletro di questa brevissima storia si chiama “Say my name”, dei “Within Temptation”, e mi sembra rifletta alla perfezione ciò che Anaichi prova nei confronti di Ichimoru, il fratello gemello scomparso…





Anaichi, uno dei protagonisti di "Senza Ombra", by Vale






Say my name
So I will know you’re back
You're here again for a while



La solitudine dei decenni ha un sapore curioso quando la paragoni a quei pochi anni di gioia che ti sono toccati in sorte da bambino: ha persino un colore e tu lo conosci, un colore che è quello del sangue, il colore della tua sconfitta, un colore che ti brucia dentro e ti ricorda tutto ciò che hai perso in un soffio, in un istante, sul finire della guerra il cui esito ha gettato il tuo mondo -il mondo intero- negli abissi della distruzione.
Si sta disgregando, la tua terra, cade lentamente in pezzi, eppure l’unica cosa a cui tu riesca a pensare è lui, tuo fratello Ichimoru, l’elfo che ti completava e ti era vicino -che cosa daresti per sentire ancora una volta la sua voce, sentirlo pronunciare il tuo nome, Nai, mio caro Nai, vedere quella luce di curiosità che sempre gli brillava negli occhi… Sacrificheresti la tua anima e molto altro, è così?




Oh, let us share
The memories that only we can share
Together



C’è un universo di piccole, calde, dolci memorie che ti lega a un presente che odi con tutto te stesso, un presente in cui ci sei solo tu, non più voi, non più noi. Il presente freddo e chiuso di chi non cerca altro che vendetta; e pur se tu sai bene che la vendetta a nulla servirà per placare il tuo dolore, comunque la persegui, rincorri il tuo onore, il tuo Hetah, lungo strade di testardaggine e isolamento.



Tell me about
The days before I was born,
How we were as children



Non ti senti libero, non è vero, Anaichi? Ti senti in colpa, perché tu sei qui e lui no. Non credi nel destino e quindi ti tormenti per trovare una risposta che ti sfugge, la risposta alla domanda che ti sei posto quasi cent’anni fa, nel campo di battaglia dove, povero infante, hai visto tuo padre il Grande generale dei Giusti morire, sconfitto, ucciso assieme a tua madre. Ti sei guardato attorno e Ichimoru non c’era più. Hai desiderato che ti portasse via con sé…




You touch my hand
These colours come alive
In your heart and in your mind
I cross the borders of time
Leaving today behind to be with you again




“Ichimoru… Fratello mio…”
Sai che è vivo, lo senti. Quella consapevolezza basta a darti la forza di proseguire, perché accende il tuo mondo spento di colori nuovi e al contempo antichi e familiari, e ti spinge a proseguire nel tuo folle intento… Ma per quanto?




We breathe the air
Do you remember how you used to touch my hair?
You're not aware
Your hands keep still
You just don't know that I am here



Lui non ha idea di chi tu sia, è distante, è perduto, ma tu gli doneresti volentieri il tuo cuore e il tuo spirito e quindi t’impunti e ti sacrifichi, lo vuoi salvare, lo devi salvare… Salverai il tuo amato Morù nonostante il prezzo da pagare sia alto, terribile, assurdo: e tu sei pronto a condannare un intero mondo purché tuo fratello viva, sei pronto a uccidere… Uccidere l’ultimo Spirito hakeruneshka, unica creatura in grado di sanare le ferite della tua terra.




It hurts too much
I pray now that soon you'll release
To where you belong



Ti fa male, tanto. Tu odi la morte, la odi profondamente, e la creatura che tieni prigioniera è così pura e così dolce e così potente da riempirti di atroci dubbi -non puoi lasciare che lui svanisca di nuovo, ma come, dove troverai il coraggio di usare violenza alla hakeruneshka che pure ti si offre inerme e desiderosa di essere uccisa?




You touch my hand
These colours come alive
In your heart and in your mind
I cross the borders of time
Leaving today behind to be with you again



Sei intrappolato in un limbo: passato e presente s’intrecciano sotto i tuoi occhi color del sole, nella tua anima color del buio, nel tuo cuore orgoglioso e ferito di demone. Senti sul tuo volto e sulle tue mani il calore di un tocco che ti manca da un secolo intero, un contatto spontaneo e affettuoso e gentile, e lo compari con la stretta delicata e un po’ timorosa della hakeruneshka che non vuole altro che consolarti -e invece dovrebbe temerti e rifuggirti. Ti accarezza le guance e tu piangi.




Please, say my name
Remember who I am
You will find me in the world of yesterday



Ricordati di me, ti prego, ti imploro! La tua è una preghiera silente, muta, una preghiera che non hai la forza di gridare ma che ti urla nella mente, lacerandoti.
Di’ il mio nome! Per favore… Dimmi che non ti sei scordato di me… fratello mio.



You drift away again
Too far from where I am
When you ask me who I am



E, Anaichi, credevi di aver sofferto quando pensavi fosse morto? E invece questo, questo è infinitamente peggio: questo non-sapere, questa incertezza che ti travolge e ti schiaccia e ti tortura mentre tu attendi che lui parli, che ti salvi o condanni con una parola, con un nome. Il tuo. 



Say my name
These colours come alive
In your heart and in your mind
I cross the borders of time
Leaving today behind to be with you again



Eppure tu… Non ti arrendi ancora, non è vero, Anaichi? Non ti arrenderai mai.
Anaichi. 


Say my name




-Vale

lunedì 22 agosto 2016

I personaggi di 'Le Ombre di Kaykoura': Cedric

Be', eccoci qui con uno dei personaggi di cui mi piace scrivere di più e che amo tanto (my lil Ceddy... sigh). A differenza di tutti gli altri personaggi della saga, il principe Cedric Danstan Edward I Tudor si intreccia con il mondo reale in una maniera tutta particolare: lui è il tanto agognato figlio di Henry VIII (esatto, quel Henry VIII), personaggio puramente fittizio e che pure vive all'interno di un ambiente che più reale di così non può essere, mescolando la storia, quella vera, e la trama del nostro libro interagendo con nobili realmente esistiti da una parte e con Hashim dall'altra (perché il nostro caro Maestro è il vero punto di incontro tra realtà e finzione).
Vi lascio allora a questo testo, così che possiate conoscere l'antagonista -ma anche no- di 'Harashan', che, vi ricordo, è il primo libro della saga.



Cedric davanti al proprio trono, fragile come vetro, by Marty




Cosa c'era in lui di così diverso perché 'disprezzo' fosse ciò che lo caratterizzava?
Cedric ne era stato a lungo inconsapevole, tutt'ora ne era inconsapevole, nonostante anni passati a convivere tra insulti, rimproveri e punizioni gli avessero insegnato che una maschera di ghiaccio è meglio delle lacrime.
Il principe Cedric Danstan Edward I Tudor era il figlio secondogenito del re Henry VIII e della sua prima moglie, Catalina de Aragón, e a lungo unico possibile erede al trono di Inghilterra, in quanto solo figlio maschio -sebbene odiato e allontanato dall'uomo che chiamava 'padre' e che pure non l'aveva mai trattato come sangue del suo sangue.
I primi anni di vita erano stati un pendolo tra bellezza e inferno: la Regina lo amava, gli diceva che era un angelo mandato dal Signore, e lo stringeva tra le proprie braccia, gli accarezzava i lisci capelli castani e lo cullava a volte fino a che non si addormentava, ma quando il Re aveva iniziato con i propri tradimenti, quando neanche Mary era ormai abbastanza, il piccolo principe si era ritrovato affidato alle cure di una balia insistente e fin troppo severa, la quale non capiva -perché era stupida e non voleva capire.
Aveva dovuto aspettare i sette anni compiuti perché gli venisse dato un tutore degno di tale nome: il Maestro era un uomo giovane, un conte e un pittore dagli occhi color del cielo ed insoliti capelli neri che gli arrivavano fino alla vita; assieme a lui era arrivato un altro bambino, un undicenne dalle iridi turchine, e ben presto in lui Cedric aveva trovato un fratello. Erano stati sei anni felici, anche se in quel periodo erano iniziati gli attentati alla sua vita -e il Maestro l'aveva puntualmente salvato- e il principe aveva imparato ben più di quanto fosse richiesto ad un reale. A tredici anni parlava fluentemente l'inglese, il francese, il latino e il volgare fiorentino: Dante e Petrarca erano diventati gli amici di una vita, le loro opere sogni utopici nei quali rifugiarsi di notte, alla luce di una candela. Ben presto imparò a conoscere la Commedia come le proprie tasche, e così anche il Convivio,  e il Canzoniere.
In quegli anni aveva persino 'rimediato' una cameriera -Martha, occhi di fumo e capelli d'oro rosso- che era diventata il suo ponte tra la città e il palazzo: amica, confidente, e unico conforto nei momenti di debolezza. Perché sì, il Maestro se ne era andato da palazzo scaduti  i sei anni di insegnamento e, sebbene non l'avesse mai abbandonato, era difficile, a volte, poterlo incontrare.
Dal 1533 in poi, il giovane principe vide le mogli del Re susseguirsi una dopo l'altra come le pagine sfogliate di un libro: Anne Boleyn -quella che mai amò e per la quale provò più pena- durò tre anni appena, e finì col perdere la testa; a Jane Seymour -buona e invidiosa come una qualunque madre- bastò un anno per spegnersi, ma non prima di aver dato alla luce il tanto amato figlio maschio, il principe perfetto, tutto ciò che Cedric-la-delusione non avrebbe mai potuto essere; Anne von Kleves seguì dopo poco tempo -non era bella, eppure in quei pochi mesi fu la madre che il principe aveva perso e che temeva di non trovare più- e se ne andò via di buon grado, acconsentendo al divorzio che in cuor suo aveva sempre desiderato; infine giunse Catherine Howard -un fiore nei suoi diciannove anni- che mai trovò nel marito ciò che i vent'anni di Cedric erano ai suoi occhi di donna ancora bambina: doveva essere sua madre, ma mai si comportò come tale.
Cedric iniziò a sentirsi solo molto presto, quasi in concomitanza con l'inizio delle punizioni, quelle serie… il carceriere sembrava aver preso gusto nel calare la frusta sulla sua schiena pallida, e ogni volta era più feroce, e faceva più male. Cedric era sempre ridotto ad un fagotto sul pavimento della cella, quando il Maestro veniva a salvarlo, e per nessuno fu una sorpresa quando il bambino che cercava disperatamente un padre assente si tramutò nel bellissimo mostro dagli occhi di ghiaccio che mandava a morire chi gli chiedeva un tozzo di pane.
Forse fu quella maschera a mandare in frantumi tutto il resto.
Vide il Maestro venire arrestato perché era un elfo -un elfo! Chi l'avrebbe mai detto?- e dovette cadere in ginocchio davanti a tutta la corte perché gli venisse risparmiata la vita.
"Conquistali, e al tuo Maestro non succederà nulla." Aveva ordinato il Re, e Cedric si ritrovò capitano di una spedizione suicida in meno di un mese, preda dei rimorsi, le orecchie piene delle urla del Maestro, e le mani sporche di sangue.
Non gli importava nulla di niente, diceva a chi osava domandare più del dovuto, ma a nessuno spiegò mai perché l'Inferno di Dante finì in parte col bruciare nel caminetto.

<<Esci.>> Disse, indicando con un cenno del capo il corridoio vuoto e buio: <<Esci immediatamente da questa stanza, prima che faccia arrestare anche te.>>
<<Come sei caduto in basso…>> Martha afferrò la coppa di vino dal tavolino e gliela schiaffò tra le mani, prima di uscire dalla stanza: <<Bevi.>> Ghignò: <<Ultimamente è l'unica cosa che ti riesce bene.>>



-Marty


martedì 16 agosto 2016

I personaggi di 'Le Ombre di Kaykoura': Hashim

Salve a tutti! Siamo sparite per un po', scusate tanto! Questa sera -anzi, notte, sto facendo le ore piccole- vorrei presentarvi un'altra delle voci narranti di Harashan, il mio elfo preferito, Hashim. In questo periodo della sua vita è conosciuto come Master Hashim Terence Williams, ma ha portato molti nomi: da bimbo è stato infatti esiliato nel mondo degli umani da uno dei Re Oscuri più potenti della storia di Haramihat (anzi, dal Re Oscuro per eccellenza, il folle, conflittuale, spietato Kyragh) e ha trascorso quasi cent'anni a girovagare per un'Inghilterra ancora aggrappata a un Medioevo in procinto di svanire...
(Questa volta il testo è un poco più lungo, chiedo venia, ci ho preso la mano! Le parole in inglese sono la sua lullaby, anch'essa mia invenzione.)



Hashim, circondato dai 'frammenti' delle sue molte vite, by Vale

“Darkness has fallen, my sweet
Your eyes are heavy, you’re tired”

La calda coperta della notte si stendeva come un manto sulla Londra dormiente, e Hashim osservava un cielo che non gli apparteneva con occhi violetti, occhi che di giorno avrebbe nascosto agli sguardi di quegli esseri umani che gli erano tanto vicini ma che non sarebbero mai stati, davvero, parte della sua vita. C’era una sorta di rassegnata stanchezza celata nelle profondità del suo sguardo che all’osservatore distratto sarebbe parso tutto fuorché triste, un concentrato di gioia e compassione e pura, limpida empatia. L’arte della menzogna era qualcosa che aveva appreso da bambino -unico mezzo per sopravvivere in un mondo dove la magia era peccato, era demonio, bandita e rifuggita, temuta, odiata, soffocata.
Perché Hashim era magia, ed era in trappola.
Il piccolo fuoco fatuo che stringeva tra le mani prese la forma di un altrettanto minuto draghetto dal corpo sinuoso e si arrampicò sulla sua spalla, solleticandogli il collo; era l’unica luce in un’oscurità che altrimenti sarebbe stata completa, e brillava rassicurante e segreto, cullato dall’elfo appollaiato in cima a una chiesa silenziosa. Nel corso dei cent’anni del proprio esilio in Inghilterra di chiese ne aveva visitate molte, come molte erano state le persone che avevano attraversato la sua tormentata esistenza immortale, di tanto in tanto tingendola di vivaci colori solo per poi spegnersi -candele senza più cera, questo erano gli umani, meravigliosi e affezionati pur se pieni di pregiudizi e paure. Effimeri. Transitori. Evanescenti.

“Let me lull you into sleep
Listen to my lullaby
Hush, now, my dear…
May my tender words warm your journey
To the land of dreams…”


Silenzio, implorava Hashim alla propria mente. Non voglio ricordare, voglio fingere. La stanza del Palazzo del Re d’Inghilterra era quieta e sicura, rifugio sacro e inviolato per i sogni dei bimbi umani e fragili che proteggeva: il Maestro sorrise teneramente, accarezzando con lo sguardo e con il morbido tocco di dita candide i volti dei due allievi, stretti l’uno all’altro nel calore di un letto infinitamente più grande di loro. Riccioli d’inchiostro si mescolavano a lisce ciocche castane, mani minute erano saldamente intrecciate, respiri leggeri e rilassati riempivano la camera di una musica cadenzata e dolce che l’elfo conosceva fin troppo bene. Quanti bambini aveva curato e cresciuto non lo sapeva, sapeva soltanto che li aveva persi, che non era stato in grado di vincere l’impossibile corsa contro il tempo, e ora tutto ciò che gli restava era l’eco di risate lontane che lo perseguitavano.
Il passato non è altro che un’ombra; il presente è reale. Fu con quel pensiero che Hashim si distese accanto ai piccini per sorvegliare il loro sonno, osservando con aria turbata le tracce di lacrime ancora visibili sul visetto perennemente in tensione del giovane principino, l’erede al trono, una creatura che era come vetro: trasparente nelle sue manifestazioni di dolore, rabbia, affetto, rigido nel suo modo di destreggiarsi goffamente nella vita di corte, estremamente delicato quando si trattava di sentimenti e autostima. Si rasserenò un poco nel vedere come Michael, più grande di quasi tre interi anni, persino dormendo sembrava volerlo schermare dalla furia di un padre che non lo desiderava.
Il Maestro sorrise orgogliosamente. Michael era la sua luce e il suo orgoglio, il suo bambino, suo figlio -adottato, naturalmente- ma prima di ogni altra cosa suo amico. Sospirando e costringendosi a non riflettere sul troppo rapido scorrere del tempo, l’elfo sguainò la spada che era una leggenda sulla sua terra perduta e si mise in attesa.

“And may the starlit night
Watch over your sleeping eyes
And kiss you goodnight, goodnight
Beloved child, beloved child, my child…”

Il sapore del combattimento non l’aveva mai veramente lasciato in tutti i decenni trascorsi così lontano dalla propria patria; lì, ancora infante, era stato un Cacciatore di Elfi Oscuri, una furia vendicativa votata al bene, un bene spietato e assoluto. A Londra, si limitava a battersi per sventare gli innumerevoli attentati che punteggiavano la già difficile vita dell’erede al trono. Se venissero dallo stesso Re o da nobili invidiosi o da semplici pazzi, Hashim non lo seppe mai, eppure erano tanti, troppi, e ai danni di un bambino… Tentava come poteva di nascondere a Cedric e Michael gli orrori di quella malsana e inutile lotta per la sopravvivenza, per quanto fosse difficile.
E così quando si trovò in un bagno di sangue circondato dai cadaveri di banditi che avevano tanto scioccamente pensato di ferire il quattordicenne principe non si sorprese né della tranquilla consapevolezza con cui il ragazzo lo guardava né del sorriso con cui accompagnò un abbraccio umido e tinto di cremisi. Non si sorprese, ma si rattristò.

“And may a thousand angels protect your dreams
And make them shine with love
Beloved child, beloved child, my child”

Hashim odiava quel mondo, il mondo degli esseri umani. In verità, lo amava quasi quanto lo odiasse -gli aveva dato molto, l’Inghilterra, molti amori, molti amici, molti affetti, molte famiglie, e altrettanti gliene aveva sottratti, brutalmente e con una suprema indifferenza che non mancava, ogni volta, di lasciarlo di sasso. Si sarebbe mai abituato al dolore della perdita, l’elfo che non era mai ciò che da lui ci si aspettava, che offriva conforto a chiunque lo chiedesse e ne avesse bisogno, che troppo spesso era stato scambiato per un angelo custode e poi accusato di non essere all’altezza del proprio compito? No, non si sarebbe mai abituato.
Rassegnato, sì. Abituato, no.

“Sleep now, I will kiss you
I will hold you close
You will always be my dearest
Beloved child, my child…”

Aveva dato se stesso per cent’anni a quegli stessi esseri umani che ora l’avevano messo in catene e bollato come mostro. Aveva offerto la propria vita e la propria libertà per proteggere i due bambini -ora giovani uomini- che erano la causa della sua dannazione, aveva accettato di lasciarsi torturare e umiliare e sottomettere purché loro fossero salvi, e allora…
Allora perché, perché nel buio della cella in cui era intrappolato Hashim non sentiva altro che il suono spezzato dei gemiti che gli sfuggivano nonostante facesse di tutto per tacerli? Perché Cedric gli aveva voltato le spalle, ignorandolo, abbandonandolo, posando su di lui occhi che non erano quelli che lo guardavano un tempo ma lastre di ghiaccio prive d’emozione, senza sentimento? Perché mostrava di non conoscerlo, di non riconoscerlo? Perché Michael aveva dovuto tradirlo? Suo figlio, il suo più caro bimbo l’aveva consegnato al Re, perché lui era Monster, devil, demon… elf.
Si era ingannato su di loro e su tutti gli altri. Questo è il prezzo delle mie menzogne: una prigione e la solitudine.

“And tomorrow a new day awaits
May it be happy and bright
May it be filled with joy
Forever, forever… as long as I live

Dearest child, beloved child, my child…”



Proprio non riusciva a trovare una scappatoia: poteva solo restare fedele a quella fatidica decisione che aveva preso poco meno di tre mesi prima. Scoraggiato, lasciò cadere in grembo le mani, e il ciacolio metallico di spesse catene incrostate di sangue accompagnò il suo movimento, rompendo il silenzio della minuscola prigione nel ventre della nave inglese.
<<I wish you would just listen to me.>> soffiò, sovrappensiero; questa volta, l’elfo aveva usato la lingua degli umani, una lingua che da troppo tempo gli apparteneva, e che amava e odiava in egual misura. <<I wish I could protect you.>>
Scattò non appena la porticina di legno che lo intrappolava venne spalancata con malagrazia, ma fu lesto a ricomporsi, e lentamente si voltò per fissare lo sguardo in quello ceruleo dell’uomo che gli si era fermato davanti.
<<Già di ritorno, Palmer?>> sibilò, senza far nulla per nascondere il disgusto che gli attraversava la voce vellutata e piena di sussiego.
Il carceriere che era il boia del Re d’Inghilterra sorrise gelidamente al prigioniero, passando nel mentre il pollice ruvido sulla superficie fredda della lama di un pugnale. <<Ebbene, Maestro Hashim Terence Williams, credevo non t’importasse di soffrire… Credevo non ci fosse uomo a corte che non potessi sconfiggere.>>
Hashim scelse di non rispondere, così Sir Palmer proseguì nel proprio tentativo di pungerlo sul vivo: <<Chi avrebbe immaginato che sarebbe stato il principe la causa della tua caduta?>>