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lunedì 1 agosto 2016

Le Ombre di Kaykoura - Harashan: la trama

E questo, cari lettori, è il nostro primo libro, primo di una saga di quattro: "Le Ombre di Kaykoura".
'Harashan' è il suo titolo, e narra la storia di un meraviglioso mondo che sta cadendo a pezzi... si sa, le maledizioni non sono da prendere alla leggera!
Questo è il nostro unico lavoro a quattro mani, sul quale abbiamo temprato il nostro sangue di scrittrici, e che è nel nostro cuore da ben cinque anni, ormai... è stato ciò che ci ha legate e ci ha fatto dannare a lungo.
E allora, ecco a voi la trama -o, per meglio dire, un mostro di Frankenstein ricavato con stralci del romanzo, perché una sinossi va ben oltre le nostre capacità di concentrazione e produzione.


                                  Diana e Maya, le protagoniste, by Vale


Quando Sharad creò Shan, divise il proprio Potere affinché qualcuno potesse aiutarla nel proprio compito, ma non può esistere Magia senza Vita, e non può esistere Vita senza Magia.
Seduta a gambe incrociate, una ninfa dai lunghi capelli biondi giocherellava distrattamente con i petali di un nontiscordardimé, una dei tanti giovani elfi che non aspettavano altro che una seconda possibilità per riscattarsi, e che pure rischiavano di morire nonostante non avessero fatto niente di sbagliato, se non nascere Nulli, senza Poteri… Shvrasta. Aveva nome Diana.
«Ma quindi, lei, sarebbe l'Harashan?» Sussurrò Hinn, accostandosi a Maya in modo da non essere sentito da altri.
L'elfa annuì: «Chi altri, sennò?»
«Ma è così piccola! Tu sai che cosa le faranno loro; non penserai di certo che la lasceranno in pace.»
«Loro,» Sibilò l'elfa: «Non le si avvicineranno neanche, parola mia. In lei c’è più coraggio di quanto immagini, la sua magia è imprevedibile. Si muove seguendo le sue passioni.»

«Il tuo spirito è pieno di dubbi.»
«Mi sorprenderebbe il contrario,» rispose Diana, inarcando un sopracciglio e mettendosi un poco sulla difensiva, «Troverò il modo di fugarli tutti.»


«Vorrei essere libera.» 
«Maya. Tu sei libera.» La voce frusciante di Fares era tiepida e rassicurante e densa di certezza.
«No, Fares. Io sono schiava. La schiava del Castagno.»
Quella donna era diversa dalle sue predecessore: si muoveva sul confine tra vita e morte, bene e male, luce e buio, non era assolutista come le altre, non si schierava ciecamente da una delle due parti, ma cercava di bilanciarsi sul bordo di un precipizio senza via d’uscita, lo stesso in cui prima di lei Sharad, Harasìmia, e per ultima Amijin si erano gettate a capofitto.
Silenziosa e discreta, la nuova elfa divergeva dal cammino tracciato per lei dal destino, e ne disegnava uno tutto differente, sconosciuto e pieno di sorprese e certamente pericoli. Il suo equilibrio era quasi perfetto, e ogni volta che incespicava, c’erano quei due elfi a sostenerla, uno con il Potere della Natura, l’altro con il Potere Oscuro.
«Non temo Kyragh… Temo il ricordo che ho di lui. Ha segnato la mia pelle e la mia anima, ed ero solo una bambina… La sua presa su di me non si allenterà mai.»
«Non finché sarai tu stessa a trattenerlo, ad aggrapparti a lui con tutte le tue forze.»
«È parte di me e ho paura che se lo lascerò andare perderò me stessa.»
«Non avete nulla da spartire. Lui era un mostro, e tu sei ciò che Kyragh non era e non è mai stato.»
«Avrebbe dovuto uccidermi e non l’ha fatto.»
«Avresti dovuto ucciderlo e non l’hai fatto.»


Portava la corona, doveva essere un Re o almeno un Principe, e si muoveva in modo infinitamente più fluido e consapevole della maggior parte dei componenti del suo esercito scomposto; assomigliava a un serpente, scattante, imprevedibile, subdolo. La ninfa osservava rapita e al contempo nauseata l’espressione vuota e feroce dei suoi occhi color del cielo nebbioso: erano agghiaccianti, distanti miglia e miglia dalla battaglia, resi più scuri da un velo di rimorso mescolato a ira crudele e impetuosa. Era l’antitesi stessa dell’elfa con la quale stava incrociando le lame: c’era un che di sbagliato e negativo nel suo atteggiamento, nel suo agire secco e distratto –era concentrato ma non completamente, era lì ma non era lì… pensava ad altro… la sua anima era macchiata, tormentata, accesa da una furia incontenibile. La sua camicia tinta di vermiglio sulla spalla ferita e su entrambe le braccia dava l’impressione che egli fosse una sorta di spirito vendicativo e sofferente, però contribuiva a dare l’idea che mancasse qualcosa…
«Quanta falsità può esserci nelle parole di un uomo…»
«Vattene, Jonathan, non disturbarmi oltre.»
«Onestamente, sire, sono l'unico su questa nave che possiate chiamare 'amico'… davvero desiderate allontanarmi e perdere quel poco di umanità che vi è rimasta? Dovrei forse ricordarvi che…»
«Come osi rivolgerti al tuo principe in questo modo?»
«Il mio principe? Il principe che io conosco e servo non è un egoista, né tantomeno un mostro. Voi, invece, lo sembrate davvero, un mostro egoista, incapace di provare anche solo un po' di compassione.»
«T'inganni, Jonathan.»
«Cosa state osservando, sire?» Domandò l'uomo, avvicinandosi un po' di più all'albero maestro.
Cedrick soffocò una risatina amara: «L'Amor che move il sole e l'altre stelle


«Vuole morire. È stanco, l’avete abbandonato, e vuol morire.»
«Lui non può morire.» Ne era sempre stato certo, fin da bambino, che qualunque cosa fosse successa, qualunque disgrazia fosse capitata, il Maestro Hashim avrebbe saputo affrontarla, superarla, annientarla, ergendosi indenne e invitto davanti alle avversità…
Il pensiero di un bambino.
«Perché no?»
«Fece una promessa.»


«Sai, una volta amai una ragazza umana. La misero sul rogo che non aveva ancora compiuto vent’anni.
 «Una volta divenni amico di una famiglia di pasticceri. Si ammalarono, e morirono tutti.
 «Da bimbo, vissi con una coppia di anziani Lord. Invecchiarono, e si spensero che io ero diciassettenne.» Lasciò andare il rosario e si prese il volto fra le mani: «Io no
«Non capisco.»
«Quando potrò avere anch’io un po’ di pace?» sospirò il Maestro, chinando il capo, «Sono immortale, Jonathan. Sono immortale e voglio morire.»
Nell’oscurità della cella si accese improvvisamente una luce candida, evocata da tre parole appena sussurrate in una lingua sconosciuta: un piccolo fuoco fatuo color della neve brillava pigramente nel palmo della mano dell’elfo che l’aveva creato dal nulla, e il moto quieto che animava le fiamme sottili contrastava nettamente con l’espressione desolata del prigioniero.
Quanto oltre posso spingermi prima di cedere?
Quanto ci vorrà prima che io impazzisca, prima che mi arrenda?
Aiutami, Mihat, per carità.
«Perché ti ostini a sacrificarti per quell’ingrato?»
«Perché non fai quel che sei venuto a fare e taci?»
«Dunque, elfo. Eccoti l’ultimo dono di Sua Altezza il Principe d’Inghilterra…» Senza preavviso, bruscamente, il carceriere pestò la mano del prigioniero, finché non udì le ossa fragili spezzarsi con un rumore nauseante.
«Quanto dovrò testarti prima che tu reagisca?»

«Piuttosto la morte.»




-Marty e Vale

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